La Torre Nera di Stephen King: sette romanzi (cui se n’é aggiunto un ottavo nel 2012 da collocare tra il IV e il V volume), trent’anni tra la pubblicazione del primo e dell’ultimo volume, un adattamento a fumetti di Peter David e Jae Lee per la Marvel e un film o una serie TV – o tutte e due – su cui sta lavorando Ron Howard e un’infinità di rimandi ad altre opere dello stesso autore, di altri scrittori, a film e musica. Su Drowned Word, ho preso appunti fino al quarto romanzo. In questo articolo partirò proprio da una sintesi di quanto già scritto.
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L’ultimo cavaliere è una puntata un po’ incerta, scritta da un ancor giovane King, ma getta basi solide per il prosieguo della narrazione. Con La chiamata dei tre invece è già palese la caratura dell’opera: un vero e proprio atto d’amore verso i “generi” di letteratura (un tempo) popolare: western, fantascienza, horror, noir e, perché no, anche rosa. Parafrasando Ballard, per The Dark Tower si potrebbe parlare di Inner frontier, la frontiera interna: ovvero, dove finisce il sogno epico, romantico e mitico che da Omero discende fino all’alba del ‘900 scorso e iniziano i canti di paranoia e alienazione dell’uomo moderno. C’è tutto l’incanto e il sense of wonder dei racconti orali e del fantastico più tradizionale, mischiato all’introspezione da romanzo psicologico e al pastiche postmoderno. Ben oltre la frontiera intesa come scenografia del mito: una vera e propria frontiera letteraria.
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The Waste Lands è il terzo capitolo della serie della Torre Nera. Qui Stephen King comincia a fare veramente sul serio. Il titolo e l’epigrafe rimandano direttamente ad un’altra Terra desolata, quella di T. S. Eliot:
Un cumulo di immagini infrante, dove picchia il sole
E l’albero morto non dà riparo, il grillo non dà tregua,
E la pietra arida ha suono d’acqua. Solo
C’è l’ombra sotto questa questa roccia rossa,
(Vieni nell’ombra di questa roccia rossa),
E ti mostrerò qualcosa di diverso dalla
Tua ombra che di mattino ti viene dietro
O dall’ombra che la sera ti si leva contro;
Ti mostrerò la paura in una manciata di polvere.
Alfiere del modernismo, Eliot scende nelle sue lande desolate all’inizio degli anni ‘20, gli anni in cui dalla morte di un’avanguardia ne nasceva un’altra, quel lasso di tempo in cui gli artisti – come funamboli della storia – dalla catastrofe della Grande Guerra gettavano l’occhio in avanti, fino all’apocalisse temporanea segnata dalla seconda guerra mondiale. L’opera (giunta al termine della formazione del poeta/drammaturgo e che segna a fuoco la sua prima, pessimista produzione) fu accolta dalla critica con pareti contrastanti; l’addebito più frequente fu quello di essere un lavoro troppo complesso, cervellotico, freddo, distante anni luce dall’immediatezza emotiva che dovrebbe contraddistinguere la poesia.
Stronzate.
Eliot riesce nella magnifica illusione di comprimere parte cospicua della letteratura che l’ha preceduto in poco più di quattrocento versi, mischiando toni, registri e stili, mettendoli in relazione facendoli collidere e schiacciare contro se stessi, fino a sintetizzarli in una visione temporale della sua epoca che ancora ha molto da dire anche nell’era dell’ipertesto. A tal proposito, Julia Kristeva scrive:
Per i testi poetici moderni questa è una legge fondamentale; essi si costruiscono assorbendo e distruggendo nel medesimo tempo gli altri testi dello spazio intertestuale: sono per così dire alter-giunzioni discorsive.
E Alessandro Serpieri (professore di Letteratura Inglese all’Università di Firenze nonché traduttore e curatore dell’edizione BUR), precisa:
Semplificando, si potrebbe concludere che quello che più interessa a Eliot (come, d’altronde, a Pound, a Joyce, ecc.) è mettere in rapporto: soggetto e oggetto, presente e passato, realtà e mito, testo e testo.
Insomma, quello che ha fatto T. S. Eliot con la poesia, secondo la mia modestissima opinione, Stephen King – appresa (consapevolmente o inconsapevolmente è secondario) la lezione dei modernisti e dei postmodernisti – lo fa con la letteratura di genere: solo che invece di comprimere le alter-giunzioni, le fa letteralmente (o letterariamente) esplodere. La Torre Nera, come è noto, è un’opera-fiume o, se preferite, un grande mosaico in cui tutti i generi popolari trovano una loro collocazione.
Una scoperta dell’acqua calda che ustiona, se solo vi si immerge la mano.
Quanto alle “aderenze” tra il poema di Eliot e il romanzo di King, ce ne sono a bizzeffe. L’allineamento delle quest Sacro Graal/Torre Nera (viste come la ricerca di una fertilità perduta) è la più banale e non basterebbe da sola a far capire quanto le due opere siano intimamente legate. Sul serio, c’è tanto di quel materiale da poterci scrivere un saggio; tra uomini incappucciati (There is always another one walking beside you / Glinding wrapt in a brown mantle, hooded), donne con lunghi capelli neri che aspettano di cantare la loro canzone (A woman drew her long black hair out tight / And fiddled whisper music on those strings) e torri che crollano…
Parafrasando Serpieri si potrebbe dire che quello che più interessa a King (come, d’altronde, a Eliot, a Pynchon, a Gibson, a Lansdale ecc.) è mettere in rapporto: soggetto e oggetto, presente e passato, realtà e mito, testo e testo, fotogramma e fotogramma, ogni futuro possibile.
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Il colore del quarto romanzo, La sfera del buio, è il rosa: rosa come il genere pop predominante – qui vi si racconta la storia d’amore tra Roland, il protagonista, e Susan Delgado – e rosa come la sfera citata nel titolo e che è il centro narrativo della vicenda. Non è proprio il colore che ci si aspetterebbe sulla tavolozza di questo autore ma, tant’è, a lui che pare riuscire tutto, riesce pure un harmony a ritmo d’apocalisse. Maledetto King. Il viaggio attraverso la psicologia del protagonista accelera bruscamente verso il profondo così, inaspettatamente, mentre preghi perché l’autore ti risparmi altre scene di amori fugaci in verdi praterie. Fare carta da cesso della riluttanza di un lettore senza perderlo è un passo oltre la semplice sospensione dell’incredulità.
La sfera del buio è anche un romanzo sulla crisi della famiglia moderna: scopriamo che Roland – questo freddo pistolero dagli occhi di ghiaccio – è anche un ragazzo attraversato da sentimenti contraddittori verso i propri genitori; tutto questo mentre il mondo che lo circonda sta andando avanti, spezza i collegamenti con una rassicurante tradizione e cade in una forte distorsione, proprio come i legamenti sfilacciati di un’articolazione in un trauma. Gli ultimi quarant’anni di questa parte di mondo si sovrappongono spaventosamente col tempo diffuso e pazzoide del mondo della Torre Nera. Altro che storie per facili sospiri.
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Al di là delle avventure di Roland e compagni (questa volta dovranno proteggere un villaggio, Calla Bryn Sturgis – non a caso John Sturges è il nome del regista dei Magnifici sette) il vero protagonista del volume V, I lupi del Calla, è il folken, la popolazione. E il fatto che sia dipinto sul modello della gente del Maine, e quindi della provincia americana, non impedisce di allargare la similitudine ai cittadini di un intero stato.
Il folken del Calla è tutto preso dal proprio lavoro – sono contadini e allevatori – e anche se non vi sia una vero e proprio sindaco o capo (dinh, direbbe Roland di Gilead) non mancano certo le personalità, quelle cioè che possono esercitare un certa pressione e/o controllo o che comunque possano fare la “voce grossa”: ovvero autorità religiose ed economiche. Il folken vive in pace la sua esistenza sopravvivendo con i frutti del proprio lavoro, è indipendente. Una quasi perfetta forma di socialismo rurale: le decisioni vengono prese in assemblee valide solo se ad esse sono presenti un numero di individui ritenuti sufficienti, ognuno si fida dell’altro. Una piccola utopia in un mondo distopico: yin e yang narrativo.
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Anno dopo anno, riga dopo riga, libro dopo libro, Stephen King si è creato all’interno della serie della Torre Nera un spazio ri-creativo perfetto: tutto torna e si incastra e, anche se non torna a prima vista, il ka (il destino) o gli universi paralleli fanno il resto. The Dark Tower è il “gigaromanzo” contenitore di tutto l’immaginario del Re. E se contiene le storie, i temi, brandelli embrionali o ecografie personaggi di altri romanzi, che c’è di male se contiene anche l’autore stesso? Nel VI volume, La canzone di Susannah, una parte degli eroi del Medio-Mondo incontra King di persona.
Sarebbe lecito aspettarsi grosse elucubrazioni cerebrali alla Paul Auster: personaggi in una fibrillazione a metà tra lo sconcerto da lettino dell’analista e una crisi mistica, e un deus ex machina vittima di una depressione da post-partum letterario. Il gioco è più facile per Mr King, che la fama negli anni ha già reso un personaggio. E il risultato non intoppa la narrazione. Da parte dell’autore c’è un profondo rispetto per le proprie creature e nessuna enfasi metafisica. Ma, inutile negarlo, questa parte rappresenta bene la poetica dello scrittore del Maine: raccontare, sopra ogni altra cosa, una storia. Il resto viene di conseguenza. L’analisi è mestiere del critico. Vivere il romanzo è un atto di complicità tra chi racconta e chi legge, una magia del raziocinio officiata da un prodotto dell’intelletto e del cuore: i protagonisti della storia.
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Il volume VII segna la conclusione della storia. Non c’è molto da dire, nonostante sia il più corposo. La corsa contro il tempo – leitmotiv kinghiano – questa volta riguarda personalmente e direttamente il lettore. Dopo l’incredibile numero di parole e avventure si ha una fretta spasmodica di arrivare alla meta. King, da consumato artigiano, pigia il piede sull’acceleratore.
Man mano che ci si avvicina alla meta, alla Torre Nera che regge ogni universo possibile («ci sono altri mondi oltre a questo»), si avverte la necessità di tornare indietro, di mettere occhi, orecchi e cuore in quegli avvenimenti appena accennati della vita dei protagonisti. Ed è un vittorioso e felice paradosso per l’autore, coadiuvato dal fatto che questa sete non potrà essere placata né da una serie a fumetti nata proprio con questo scopo, né da un volume che si aggiunge alla serie (La leggenda del vento), perché il vuoto vuole essere colmato dallo stesso narratore. Un grande risultato per un romanzone che tutto è tranne un capolavoro assoluto. Non deve essere facile scrivere del(o per)lo stesso personaggio per anni e anni, tra interruzioni, altre opere richieste e date in pasto ai lettori e un incidente quasi mortale. È come cercare di finire un cruciverba in mezzo a una folla di bambini che ti tira per la giacca (mentre uno, dispettoso, ti tira perfino un pugno nelle palle).
La Torre Nera è un gorgo narrativo, una sabbia mobile dove il lettore ha il piacere di morire, così, solo per vedere che c’è in fondo alla palude.