Il giardiniere di Boboli

There’s a slow train coming
It’s movin’ on down the line
Steel wheels on iron rails
Tonight I’m fixin’ to die

Joe Bonamassa, Slow Train
An acoustic evening at Vienna Opera House

madame_bovaryDietro le palpebre uno schermo nero. Di sottofondo, un ritmo regolare di pistoni, vapore e ruote d’acciaio. Il fischio che seguì fu la nota blu che la risvegliò dai suoi sogni. Emma Bovary aprì gli occhi.
Un treno stava arrivando, lento, sulle rotaie della stazione Leopolda.
La primavera del 1859 era appena esplosa. Il sole dei lucernari intercettava il pulviscolo sollevato dalla gente scesa dalle carrozze. La signora Bovary, le palpebre ancora socchiuse, restò immobile sulla panchina. Aveva lo sguardo sfocato da lacrime dense. Si raccoglievano sulle ciglia, un ricordo alla volta, e scivolavano via.
Papà Rouault e la vita in campagna, Charles, il matrimonio, la casa a Tostes. L’insostenibile noia coniugale. Il ballo al castello La Vaubyessard e la vita che divenne obliqua, una vertiginosa discesa di sogni d’amore, degni di un romanzo: il Marchese di Andervilliers, Lèo e, infine, Rodolphe.
Per Rodolphe aveva detto addio alla Francia e al suo matrimonio con Charles. Fuggirono passando da Marsiglia e Genova, dove trascorsero le notti migliori della loro vita.
All’alba di uno di quei giorni dove ogni gesto era sensualità e tenerezza, Rodolphe la sorprese sveglia alla finestra a fissar le lanterne del porto svanire nella luce della mattina.
«Non riesci a dormire?»
Emma esitò il tempo di una carezza. Poi disse: «È il pensiero che tutto questo possa finire. La paura che la noia, prima o poi, ci separi, come già ha fatto con me e Charles.»
«Ci avevo già pensato. È per questo che domani stesso salperemo verso Livorno.»
Nel Granducato di Toscana ci arrivò da sola.
Rodolphe aveva abbandonato la nave poco prima della partenza. Come commiato solo poche parole vergate di fretta su carta da pacchi: «So che mi capirai. Alla noia non c’è rimedio.»
Ci aveva già pensato, appunto.

* * *

Gli anni a Livorno furono bui. Conobbe la fame, gli stenti, la sporcizia che si attacca alle ossa come ruggine. Maledisse la sete d’avventura. Ma ormai non poteva più tornare indietro. Si abbassò a ogni mestiere, fino al meretricio. Ogni cliente era un sudicio colpo di spugna ai sui sogni d’amore. Ma uno, almeno, fu diverso.
Lorenzo.
Lui non gettava pietre sul suo cuore, lo gonfiava di speranza. Era giovane come Léo, carismatico come il Marchese di Andervilliers, e riuscì a farle dimenticare Rodolphe e tutti gli altri uomini della sua vita, compresi Charles e perfino papà Rouault.
Dopo l’amore, le raccontava di Firenze: soprattutto di Palazzo Pitti, dove lavorava come messo alla corte di Leopoldo II. Lorenzo le disse che il sovrano aveva il labbro sporgente e che tutti lo chiavano Broncio.
«E non è finita», diceva «in molti lo appellano come Canapone.»
«Perché?» chiedeva Emma, soffocando le risa.
«Per via dei suoi capelli biondi, sbiaditi come la canapa.»
Lorenzo era speciale per questo. La faceva ridere. La divertiva.
Giorno dopo giorno, ricominciò a sognare. Finché non gli chiese di portarla con lui a Firenze. A corte non lo avrebbe fatto sfigurare, conosceva le buone maniere, sapeva sostenere una conversazione, suonare il piano e, come vedeva lui stesso, parlava bene la lingua italiana, che aveva studiato con passione.
Venne il giorno in cui si diedero appuntamento alla stazione Leopolda.
Durante il viaggio in treno era colma di una felicità incontenibile. Pareva che Broncio avesse fatto stendere tutti quei chilometri di strada ferrata solo per lei.

* * *

Il treno, lento ma alimentato dal vapore delle sue speranze, l’aveva portata a Firenze tre giorni fa. Madame Bovary non dormiva da due notti, rosa dalla disperazione e dai cattivi ricordi.
Lorenzo non era diverso dagli altri. L’aveva illusa, usata e abbandonata.
Non poteva fare altrimenti, Lorenzo, uno dei tanti, umili giardinieri di Boboli.
Il convoglio intanto si preparava a riprendere la via di Livorno. Una piccola folla si raccoglieva tra le alte mura della Leopolda. Gente che parlava, parlava e parlava. Discuteva di Canapone e dei Piemontesi, dell’Italia che sarebbe venuta. Si affannava coi bagagli e i pacchi.
Il treno fischiò la sua impazienza a partire.
Una ragazza dai capelli neri e la pelle di porcellana correva verso la carrozza. Il cappello le volò dalla testa e andò a cadere ai piedi della signora Bovary. La ragazza si chinò a raccoglierlo e le sorrise. Aveva una cicatrice sulla guancia. Fu come vedere Berthe, sua figlia, solo con qualche anno in più.
Solo in quel momento, Emma trovò la forza di alzarsi dalla panchina. Per la rabbia o per l’improvviso vuoto degli anni perduti che le agitò l’anima.

* * *

Madame Bovary attraversò le strade di una Firenze in pieno tumulto. Le persone affollavano le strade. Correva voce che Broncio avesse abdicato e stesse per lasciare la città e il Granducato. C’era chi rimpiangeva il sovrano e chi la ghigliottina: «Maremma cane, con quella sì rimetti a posto le cose: qualche testa nel cesto e qualche grullo in meno.»
«Stai sicuro che così non tornano.»
L’eccitazione era alle stelle.
Quando arrivò davanti Palazzo Pitti, pareva che ormai nessuno fosse rimasto in casa. La carrozza di Leopoldo II si fece largo tra la folla, lentamente. Qualcuno gridò: «Addio, babbo Canapone!».
Poi il tempo parve accelerare vorticosamente, come a volersi proiettare nel futuro.
La carrozza del sovrano aumentò la velocità e Madame Bovary si ritrovò, senza sapere come avesse fatto in mezzo a tutta quella umanità urlante, sotto gli zoccoli dei regali cavalli.
Per una volta almeno, era riuscita a realizzare i suoi sogni.

As the steam from my slow train rises
It’s time for me to get on board

A clockwork orange carnival

Hai tredici anni. Non sei più un bambino ma neanche un ragazzo. Là fuori, piccolo muso pallido, il mondo è assai cattivo e selvaggio. Questo non c’è bisogno di impararlo, scorre nelle vene assieme al sangue di tuo padre di generazione in generazione. Fra qualche anno, non ti dovrai disturbare a insegnarlo ai tuoi figli, il gene del fatti-i-cazzi-tuoi-che-campi-cent’anni farà il suo lavoro. C’è chi le mazzate le prende e chi le distribuisce. Una variante della famosa legge, valida per la giungla in cui sei nato.
Per te, che le hai sempre prese, il carnevale quest’anno sarà come un richiamo della foresta. Non potrai in alcun modo resistergli.

* * *

Si chiamano Zinzulari. Si mascherano con degli stracci e girano per le strade in bande. Menano – a mani nude e con bastoni – per il gusto di darle. Non solo perché a carnevale ogni scherzo vale. Non dimenticare che sei nato in una terra selvaggia, ragazzo. In burlate così, in giochi che sono palestra di sopraffazione, rischi di incorrerci ogni giorno che dio manda in terra.
I Zinzulari fanno paura.
Si attaccano al tuo citofono e, se non li apri, lo devastano.
È successo l’anno scorso, quando tua madre costrinse in il tuo pa’ a non aprirli.
Driiiin!
Eccoli, puntuali.
«Fai come vuoi. Io non voglio neanche vederli. Vado in camera.» dice lei.
Ti ritrovi solo col tuo vecchio, mentre il citofono – drin, driiiin, drin-driiiiiin – si abbatte sulle vostre orecchie come un vento fastidioso che fa strizzare gli occhi. Lui, dall’alto della sua statura, ti guarda e senza aprire bocca dice: «Non ti preoccupare. Ci sono io. Non può succedere niente di male.»
Poi preme il pulsante.

Questi fantasmi vestiti di stracci urlano, ridono, battono i bastoni sulla ringhiera. Sei spaventato a morte. Ma anche curioso di vederli.
Appena entrano, si zittiscono come radio senza corrente. Uno dopo l’altro abbassano le maschere. Ora puoi contare sei sorrisi storti e dodici palpebre appesantite dal vino: «Non ci offrite niente?»
Tuo padre li porta in cucina e li fa accomodare. Tira fuori vino, bicchieri e frutta secca. Torna l’elettricità. Volano schiamazzi che non riesci a seguire, come quando eri bambino: discorsi da grandi, mezze parole, allusioni e battute che non riesci a capire. L’attenzione è tutta sui loro volti giovani – il più vecchio avrà al massimo venticinque anni – e lo sforzo è tutto nel cercare di riconoscerli. Non ci riuscirai, è troppo presto ancora. Fra un paio d’anni, quando comincerai a frequentare bar e saloon del tuo villaggio te li ricorderai bene. Lì è la loro casa, tra birre, sigarette e sogni di conquista.
Passa neanche mezz’ora che hanno bevuto abbastanza.
Barcollano fino alle scale, dove i loro bastoni ritornano a pizzicare la ringhiera come uno xilofono stonato.
Prima di chiudere il cancello, trovano il tempo di rovesciare e spaccare un vaso di gerani appena fioriti.

* * *

Il giorno dopo è ancora carnevale e il richiamo della foresta è più forte che mai.
Hai passato tutta la mattinata al telefono a cercare di convincere i tuoi amici a uscire: «Vestiamo pure noi da Zinzulari, dai.»
«Tu sei pazzo.»
Poi, al calare del sole, litighi coi tuoi genitori.
Vuoi uscire, a tutti costi.
Non sei più un bambino.
Quando i lampioni si accendono, sei fuori coi tuoi stracci, un manico di scopa e la paura che soffia con il vento sulle guance imberbi. Attorno a te, palazzine popolari i cui toni di grigio si fondono con la notte incipiente. Strade parallele e tutte uguali. Buio in movimento.
Cominci a vagare.
La vista si abitua al crepuscolo artificiale. Assieme ad essa, esplodono pure gli altri sensi. Da qualche parte, un cane randagio si è appena avventato su una busta di spazzatura in cerca di un pasto. Il frusciare della plastica è distinto e fastidioso come un’unghia su una lavagna. I profumi della vegetazione in fiore – oleandri, soprattutto – sanno di un dolciastro che rivolta lo stomaco.
Le prime avvisaglie di primavera sono una trappola cui i tuoi stracci non possono porre rimedio. Hai freddo. Ma presto smetti di tremare.
Arriva la prima, barcollante banda di Zinzulari.
Li attendi in mezzo al marciapiede, speranzoso.
«Guaglio’, posso venire con voi?»
La risposta è una serie di dolorose spallate e pestoni.
La frustrazione è una brutta bestia; mischiata con la paura poi è ancora più pungente. Va sfogata. Lo specchietto di una macchina può bastare. L’adrenalina è un farmaco infallibile.
Arriva la seconda banda. Sono in sei. Forse gli stessi di ieri, a casa. Forse no.
«Guaglio’, mi pigliate?»
Pigliare ti pigliano, questa volta. Ma a mazzate.
Tutte dritte nello stesso posto: gli stinchi.
Le lacrime che si formano agli angoli degli occhi, non sono di dolore, no.

* * *

Davanti al citofono di casa, il bastone brucia nelle mani.
Il cervello proietta un film di colpi a ripetizione, tasti avulsi come occhi dalle orbite e fili elettrici esposti come budella di un cadavere.
Il bastone si alza – i muscoli in tensione – per poi abbattersi sull’angolo di un muro e spezzarsi in due.
Piangi pure, piccolo muso pallido, ti farà bene.

* Illustrazione di Edo Grandinetti
** Special thanks to Ray

Cento byte di solitudine, omaggio a Gabriel Garcia Marquez

Gabriel Garcia Marquez

Gabriel Garcia Marquez

Nel giorno in cui si apprende della morte di Gabriel Garcia Marquez, vorrei ricordarlo con un racconto, Cento byte di solitudine. Un testo che ha dieci anni. Lo scrissi nel 2004 per partecipare a un concorso sulle web addiction. Facebook era stato fondato proprio in quell’anno e i social media non avevano lo stesso ruolo di oggi; il concetto di comunità web era decisamente sfumato. Il racconto ebbe una sola pubblicazione, tradotto in inglese, per un numero speciale della rivista Next, nel 2009. Lo ripropongo qui, spinto dalla stessa, immutata ammirazione che provavo per Marquez due lustri fa.

* * *

Pochi minuti alla fine di Macondo City. Aureliano è immobile davanti al monitor. Dalla fronte una goccia di sudore scende nell’occhio, ma non lo distrae dalla sua tristezza.
Dalì – lo screensaver – s’arriccia i baffi invadendo il desktop. Aureliano sfiora il mouse facendo emergere una babele di file e cartelle. Tra questi un collegamento di cui non riesce o non vuole leggere il nome: è una connessione ad un server internet mai utilizzata, ancora vergine di click. Sfiora l’icona col puntatore, le mani sul mouse sono gelide.
Dissolvenza: il suo cervello si riposa oscurandogli per qualche secondo la vista.
Ritorna a vedere, i pixel emergono dall’ombra scintillando. Si parte. Connessione standard. Ultime notizie da Macondo City, una città virtuale, una soltanto tra le esistenti e le infinite possibili:

[02:48] Prosegue l’esodo da Macondo City: disconnessi 3.532.003 utenti su 6.000.000 complessivi.

Un sorriso spastico solca il volto di Aureliano. Ha freddo. Dovrebbe alzarsi per bere qualcosa di caldo o indossare un maglione.
Ancora no.
Un altro giro, un altro ancora e poi basta.
Dissolvenza.
Click!

[02:52] Macondo City: 5.789.000 utenti disconnessi su 6.000.000.
[02:53] Memento Mori: solo 1000 utenti connessi su Macondo City.

La risata di Aureliano, mista ad attacchi violenti di tosse, è tanto forte che lo fa diventare paonazzo.
Dissolvenza.
Monitor.
Tastiera.
Dissolvenza.

Una capatina per vedere come sta Remedios, la sua amica virtuale più fedele e sincera. Aureliano lancia il programma Messenger / Live Chat.
[Remedios] Qua va tutto a puttane. Tutti si stanno disconnettendo e…
[Aureliano] Perché?
[Remedios] Ecco appunto: nessuno sa il perché.
[Aureliano] …
[Remedios] Ti saluto amico. Io stacco. Alla prossima.
Click!

[03.01] Un utente connesso a Macondo City.

Dissolvenza.
Ritorno al desktop.

L’icona della connessione remota mai utilizzata è sempre là. Aureliano esita. Vuole cliccarci sopra ma sente la mano paralizzata. Adesso legge cosa c’è scritto sotto: realtà.
Il dito finalmente si muove sul mouse.
Aureliano chiude gli occhi.
Click!

Macondo City è finita, sprofondata per sempre nell’oceano della Rete. Prima di scomparire emette un urlo di morte in linguaggio binario. Un ultimo rantolo pesante 100 byte.
Ora non esiste più.
Le Città condannate a Cento Byte di Solitudine non hanno una seconda possibilità nella Rete.
Dissolvenza.

Un buco allo stomaco

La celebre figurina Panini in cui Baggio si chiama Monelli: un altro esempio di mondo parallelo con protagonista il Divin Codino

La celebre figurina Panini in cui Baggio si chiama Monelli: un altro esempio di mondo parallelo con protagonista il Divin Codino

Una piccola panetteria di San Frediano diventò una porta su un universo parallelo: un mondo dove Dio riempiva lo stomaco e non l’anima, Roberto Baggio non aveva mai lasciato la Fiorentina per la Juventus e un buddista convinto mangiava una bistecca al sangue.

* * *

Pane toscano, pugliese, coi semi di sesamo e senza, ciabatte, pizze, pizzette, schiacciate all’olio e ripiene di crema, crostate, sacher monoporzione, cornetti. Un’orgia di invitanti profumi e fragranti bontà di giornata.
Valeria serviva un cliente dopo l’altro, sempre più imbarazzata, mentre il suo stomaco brontolava come un vecchio trombone.
Quasi un complotto: dopo più di un’ora in cui non s’era vista anima viva, arrivarono tutti d’un colpo. Precisi, giusto al primo sintomo di fame.
Era sola. Suo marito era costretto a letto da una febbre talmente alta da farlo viaggiare nel tempo: «Gobbo no, eh! Accidenti a te Roby, se tu parti noi si fa la rivoluzione.»
Per lui era il maggio del 1990, l’anno dei mondiali e nel delirio cercava di convincere Baggio a non lasciare la Fiorentina.
Accidenti a te, Jacopo, al calcio e alla tua febbre.
Sorridendo – non tollerava la gente che non sorrideva mai – una gocciolina salata le scivolò sulle labbra. I calciatori sudavano come lei, sorridevano meno di lei e guadagnavano quanto lei avrebbe sperato in dieci vite.

Visti i tempi non era il caso di lamentarsene, ma i clienti sembravano accatastarsi uno sull’altro. Ogni tanto, con la scusa di andare a controllare un forno nel retrobottega, Valeria dava un morso a una schiacciata all’olio.
La piena cessò, di colpo com’era arrivata.
La schiena le doleva e prese posto su uno sgabello. Guardò soddisfatta il recipiente in vetro dei fagioli cotti al forno: era quasi vuoto. Era un’idea di  Jacopo: ogni tanto alla gente del quartiere avrebbe fatto piacere mangiare come dalla nonna. Aveva ragione. E poi su qualche spicciolo in più non ci si sputava sopra.
A proposito di suo marito: le medicine avevano fatto effetto o stava ancora tentando di convincere Baggio a cambiare idea? Dette un morso distratto alla schiacciata, portandosela dietro il bancone. Provò a perdersi nei suoi pensieri ma non ci riuscì.
La piena era ricominciata.
Uno dopo l’altro entrarono un uomo con sua moglie (o una donna con suo marito), un bambino, poi una bambina, un tipo con gli occhiali da sole, un altro che aveva tutto l’aspetto di un muratore e infine un prete. Tempo di alzare gli occhi da un particolare indefinito su una pagnotta e se li ritrovò tutti davanti, come materializzati da un sogno.

La vergogna le bloccò il boccone in gola. Quasi poté specchiarsi nelle espressioni dipinte sui volti dei nuovi arrivati: si vedeva rossa come una lampadina surriscaldata, gli occhi strabuzzati e una ruga profonda come un canyon in mezzo alla fronte.
Le rare volte in cui non sapeva chi servire per primo lasciava fare a loro. E così fece, non prima di aver ingoiato il boccone e di essersi scusata.
Il primo a farsi avanti fu il prete: «Vorrei un po’ di fagioli, per piacere.»
Nel frattempo il muratore aveva preso una lattina di birra dal frigo e si era avvicinato alla cassa, sventolando un biglietto da cinque euro.
L’uomo con gli occhiali da sole, uno a cui la stazza non mancava, batté una mano sul bancone: «Ma la fila? La bambina qui ha un buco allo stomaco.»
Uomo e donna (o donna e uomo) con marmocchio si guardarono in faccia e dissero all’unisono: «What the fuck!»
Bene, avrebbe deciso lei: prima gli yankee, che non abbiano a dire a casa loro che siamo dei cafoni, poi il muratore – lo conosceva, Alin, birretta e trancio di pizza marinara: l’avrebbe servito in un lampo – tra il prete e l’Occhialuto avrebbe fatto decidere a loro.
Un, due, tre, via!
«Scusi, padre. Permette? Faccio in un attimo e sono da lei» disse Valeria.
Il prete forzò il suo volto a un’espressione di accondiscendenza e annuì.
«Can we have some skicciadah
«Sure. For whole family, sir?»
«Yeah, right!»
Mentre pesava e incartava, disse al capobranco che se voleva qualcosa da bere poteva prederò dal frigo dietro di lui. Negativo. Quattro e cinquanta. E tanti saluti alla Casa Bianca. Trenta secondi al massimo. Avanti il prossimo.
Al muratore non disse nulla se non, dopo aver impacchettato il Solito e dato il resto: «Grazie Alin, a domani.»
Venti secondi netti.
Era il momento del duello.
Il prete guardò i fagioli, l’Occhialuto ghignò. La bambina era incollata al vetro del bancone.
I due sfidanti si fissavano negli occhi.
La tensione fu spezzata dallo stomaco di Valeria, mai domo, che eruttò un gorgoglio a tutto volume.
«Scusate» disse, e arrossì di nuovo.

Il prete volle dimostrare la sua superiorità morale e cedette il posto: «Faccia pure», disse e si fece da parte.
Valeria, per metà soddisfatta dalla pace ritrovata e per metà delusa dalla guerra mancata, dispose il suo sorriso d’ordinanza verso l’Occhialuto.
L’enorme bistecca d’uomo né ringraziò l’ultras di Cristo né ricambio il sorriso: «Chieda alla figliola. Sa quello che vuole.»
Mentre la bambina spiegava a Valeria quali schiacciatine voleva e perché ne voleva due, «così domani mattina ho già la merenda per la scuola», l’Occhialuto fissava il prete assorto sui fagioli.
«Basta così?» disse la panettiera.
Il ghigno dell’Occhialuto quasi brillò più della luce del giorno: «No, guardi, vorrei un po’ di quei fagioli al forno.»
Il prete accusò il colpo, deglutendo a vuoto. Il suo avversario gli aveva sparato alle spalle.
Valeria, in forte imbarazzo, chiese: «Per quante persone?».
Ci fu una pausa, quella terribile sospensione del tempo che prelude a una figura di merda.
«Una», rispose l’uomo, secco.
Una vampa di vergogna bruciò Valeria dai piedi fino alla punta delle orecchie.
I due fagioli rimasti non erano abbastanza per il prete, che girò i tacchi e chiosò: «Dio riempie tutti i vuoti, anche quelli allo stomaco. Arrivederci.»
Valeria finì la sua skicciadah e crollò su uno sgabello. Era immobile come una statua, ma il suo cervello ronzava a tutto gas: che figura! E se l’Occhialuto fosse divorziato, magari da poco, e questo fosse il giorno in cui sta con la figlia o, peggio, se la moglie fosse morta? Non potevo semplicemente mettere i fagioli nel sacchetto di plastica e chiedere: «basta così?». No! Troppo semplice. E invece cosa gli chiedo? Per quante persone. Come se ci fossero fagioli a sufficienza. Poveretta la moglie. E il prete con lo stomaco vuoto? Accidenti a me! Se ci fosse stato Jacopo, tutto questo non sarebbe accaduto.

Se ci fosse stato Jacopo, magari sì, non sarebbe andata proprio in quella maniera. Le avrebbe spiegato che l’Occhialuto non era il padre della bimba ma il nonno, un comunista di ferro che sognava l’Armata Rossa in piazza della Signoria. Le avrebbe raccontato di Don Aldo che si lamentava sempre della cucina della perpetua e che una volta a settimana le faceva dispetto tornando con qualcosa di già pronto. Niente defunti, nessuna separazione, nessun morto di fame. In definitiva, nessuna figuraccia.

* * *

Un altro mondo, un altro terribile universo: Jacopo non avrebbe avuto la febbre e non avrebbe mai mangiato quella bistecca con Roby a I’ Brindellone. La bistecca epocale e definitiva, quella che tra un morso e l’altro l’aiutò a convincere Baggio.
«Te ne vai, allora. E metti che ti ritrovi a battere un rigore contro – i rigori a quelli non mancano mai – che fai? Lo tiri come se niente fosse?»
Roby viola a vita.
Valeria lo svegliò mentre il Divin Codino mostrava il pallone d’oro alla Fiesole.

Assalto alla diligenza

Se vuoi respirare un po’ di vecchio West, non hai che da prendere un treno notturno Torino-Reggio Calabria e aspettare, tra le due e le tre del mattino, il tratto che va da Salerno a Sapri.
Potrai chiuderti nella tua diligenza con lettino e aspettare l’arrivo dei banditi. E stai sicuro che arriveranno, pronti a sorprenderti nel sonno. Non ci sarà nessun fazzoletto a coprirgli la bocca, né Colt fiammanti a baluginare fra le loro mani.
Ma i loro volti saranno quelli che abitano i tuoi sogni di frontiera: scavati, ricoperti di barba ispida e con i denti marci.
Tu però sarai più svelto e quando si presenteranno alla tua porta ti sveglierai.
Loro non ti torceranno un capello, scusandosi con lo stesso tono di un mandriano la cui una vacca ha cagato sul piede di un prete: «Abbiamo sbagliato scompartimento.»
Poi si dissolveranno in fondo al corridoio, nella nebbia dei loro cigarillos, in barba a ogni divieto antifumo.
A quel punto si sveglierà lo Sceriffo, che ora si fa chimare Accudiente e che tu conoscevi come Cuccettista. Penserai: la legge, finalmente.
Così ti lancerai in un dettagliato quanto indignato racconto dell’accaduto. Lo Sceriffo – che come tutti gli sceriffi è bello pasciuto e ha l’aria di chi la sa lunga – ti dirà che non ci si può fare nulla, che altri uomini di legge prima di lui sono stati malmenati e buttati giù dal treno, e che neanche chiamare la Cavalleria Polfer servirebbe a un cazzo, che quelli tornerebbero dopo un paio d’ore liberi di fare i comodi loro. Dirà: «È il selvaggio West, amico» e se ne tornerà tranquillo a russare.
Con la voglia di dormire ormai andata a farsi benedire, resterai fermo tra le lenzuola, tenendo la porta aperta.
Dopo un po’, sentirai dei ragli nel corridoio e, affacciandoti, ritroverai gli stessi grugni che volevano fotterti nel sonno, tutti concentrati ad aprire lo scompartimento accanto al tuo.
Il bandito ti guarderà negli occhi di gringo, sorprendendoti a spiarlo. Per niente spaventato, ti verrà incontro, mostrandoti in un sorriso i suoi denti marci. Ti offrirà la mano e tu non saprai se per chiederti scusa o complicità. Tu ti rifiuterai e lui insisterà. Alla fine, per levartelo dai cosiddetti e per non farlo scaldare, gliela stringerai.
Dopo averti rifilato una carezza sulla guancia, il fuorilegge dirà: «Da omm’ a omm’.»
Quindi te ne tornerai al tuo posto, chiudendo la porta e aspettando la prossima fermata. Ti sembrerà a quel punto di vedere i banditi scendere dal convoglio e infilarsi di soppiatto nel sottopassaggio.
Solo allora ti accorgerai di essere sull’ultima carrozza, e potrai osservare una stazione di Bassitalia sfumare assieme alle sue luci nella bruma di una mattina d’inverno.