Il giardiniere di Boboli

There’s a slow train coming
It’s movin’ on down the line
Steel wheels on iron rails
Tonight I’m fixin’ to die

Joe Bonamassa, Slow Train
An acoustic evening at Vienna Opera House

madame_bovaryDietro le palpebre uno schermo nero. Di sottofondo, un ritmo regolare di pistoni, vapore e ruote d’acciaio. Il fischio che seguì fu la nota blu che la risvegliò dai suoi sogni. Emma Bovary aprì gli occhi.
Un treno stava arrivando, lento, sulle rotaie della stazione Leopolda.
La primavera del 1859 era appena esplosa. Il sole dei lucernari intercettava il pulviscolo sollevato dalla gente scesa dalle carrozze. La signora Bovary, le palpebre ancora socchiuse, restò immobile sulla panchina. Aveva lo sguardo sfocato da lacrime dense. Si raccoglievano sulle ciglia, un ricordo alla volta, e scivolavano via.
Papà Rouault e la vita in campagna, Charles, il matrimonio, la casa a Tostes. L’insostenibile noia coniugale. Il ballo al castello La Vaubyessard e la vita che divenne obliqua, una vertiginosa discesa di sogni d’amore, degni di un romanzo: il Marchese di Andervilliers, Lèo e, infine, Rodolphe.
Per Rodolphe aveva detto addio alla Francia e al suo matrimonio con Charles. Fuggirono passando da Marsiglia e Genova, dove trascorsero le notti migliori della loro vita.
All’alba di uno di quei giorni dove ogni gesto era sensualità e tenerezza, Rodolphe la sorprese sveglia alla finestra a fissar le lanterne del porto svanire nella luce della mattina.
«Non riesci a dormire?»
Emma esitò il tempo di una carezza. Poi disse: «È il pensiero che tutto questo possa finire. La paura che la noia, prima o poi, ci separi, come già ha fatto con me e Charles.»
«Ci avevo già pensato. È per questo che domani stesso salperemo verso Livorno.»
Nel Granducato di Toscana ci arrivò da sola.
Rodolphe aveva abbandonato la nave poco prima della partenza. Come commiato solo poche parole vergate di fretta su carta da pacchi: «So che mi capirai. Alla noia non c’è rimedio.»
Ci aveva già pensato, appunto.

* * *

Gli anni a Livorno furono bui. Conobbe la fame, gli stenti, la sporcizia che si attacca alle ossa come ruggine. Maledisse la sete d’avventura. Ma ormai non poteva più tornare indietro. Si abbassò a ogni mestiere, fino al meretricio. Ogni cliente era un sudicio colpo di spugna ai sui sogni d’amore. Ma uno, almeno, fu diverso.
Lorenzo.
Lui non gettava pietre sul suo cuore, lo gonfiava di speranza. Era giovane come Léo, carismatico come il Marchese di Andervilliers, e riuscì a farle dimenticare Rodolphe e tutti gli altri uomini della sua vita, compresi Charles e perfino papà Rouault.
Dopo l’amore, le raccontava di Firenze: soprattutto di Palazzo Pitti, dove lavorava come messo alla corte di Leopoldo II. Lorenzo le disse che il sovrano aveva il labbro sporgente e che tutti lo chiavano Broncio.
«E non è finita», diceva «in molti lo appellano come Canapone.»
«Perché?» chiedeva Emma, soffocando le risa.
«Per via dei suoi capelli biondi, sbiaditi come la canapa.»
Lorenzo era speciale per questo. La faceva ridere. La divertiva.
Giorno dopo giorno, ricominciò a sognare. Finché non gli chiese di portarla con lui a Firenze. A corte non lo avrebbe fatto sfigurare, conosceva le buone maniere, sapeva sostenere una conversazione, suonare il piano e, come vedeva lui stesso, parlava bene la lingua italiana, che aveva studiato con passione.
Venne il giorno in cui si diedero appuntamento alla stazione Leopolda.
Durante il viaggio in treno era colma di una felicità incontenibile. Pareva che Broncio avesse fatto stendere tutti quei chilometri di strada ferrata solo per lei.

* * *

Il treno, lento ma alimentato dal vapore delle sue speranze, l’aveva portata a Firenze tre giorni fa. Madame Bovary non dormiva da due notti, rosa dalla disperazione e dai cattivi ricordi.
Lorenzo non era diverso dagli altri. L’aveva illusa, usata e abbandonata.
Non poteva fare altrimenti, Lorenzo, uno dei tanti, umili giardinieri di Boboli.
Il convoglio intanto si preparava a riprendere la via di Livorno. Una piccola folla si raccoglieva tra le alte mura della Leopolda. Gente che parlava, parlava e parlava. Discuteva di Canapone e dei Piemontesi, dell’Italia che sarebbe venuta. Si affannava coi bagagli e i pacchi.
Il treno fischiò la sua impazienza a partire.
Una ragazza dai capelli neri e la pelle di porcellana correva verso la carrozza. Il cappello le volò dalla testa e andò a cadere ai piedi della signora Bovary. La ragazza si chinò a raccoglierlo e le sorrise. Aveva una cicatrice sulla guancia. Fu come vedere Berthe, sua figlia, solo con qualche anno in più.
Solo in quel momento, Emma trovò la forza di alzarsi dalla panchina. Per la rabbia o per l’improvviso vuoto degli anni perduti che le agitò l’anima.

* * *

Madame Bovary attraversò le strade di una Firenze in pieno tumulto. Le persone affollavano le strade. Correva voce che Broncio avesse abdicato e stesse per lasciare la città e il Granducato. C’era chi rimpiangeva il sovrano e chi la ghigliottina: «Maremma cane, con quella sì rimetti a posto le cose: qualche testa nel cesto e qualche grullo in meno.»
«Stai sicuro che così non tornano.»
L’eccitazione era alle stelle.
Quando arrivò davanti Palazzo Pitti, pareva che ormai nessuno fosse rimasto in casa. La carrozza di Leopoldo II si fece largo tra la folla, lentamente. Qualcuno gridò: «Addio, babbo Canapone!».
Poi il tempo parve accelerare vorticosamente, come a volersi proiettare nel futuro.
La carrozza del sovrano aumentò la velocità e Madame Bovary si ritrovò, senza sapere come avesse fatto in mezzo a tutta quella umanità urlante, sotto gli zoccoli dei regali cavalli.
Per una volta almeno, era riuscita a realizzare i suoi sogni.

As the steam from my slow train rises
It’s time for me to get on board

L’Armata dei Sonnambuli

armata_wu_mingIl collettivo Wu Ming torna in libreria con L’armata dei sonnambuli, ambientato nella Francia rivoluzionaria del 1793, anno in cui Madama Ghigliottina baciò il collo di Luigi Capeto inaugurando la stagione del Terrore.

Come sempre, un romanzo storico che getta uno sguardo obliquo sul presente. Precarietà, controllo delle masse, questione femminile sono i nodi tematici più evidenti. In 800 pagine c’è spazio per molto altro, come lo sviluppo e il decadimento psicologico dei personaggi, impegnati a raccogliere i cocci del loro inconscio in un momento in cui a esplodere è un’intera società,  gli psicologi non esistono – i loro maggiori concorrenti, i preti, sono schiacciati dallo spread ideologico repubblicano – e l’unico psicofarmaco di massa disponibile è il vino.

Ci sono strati e strati di riferimenti, intrecci e particolari che, chiuso il libro, danno un senso di vertigine. Per approfondirli, ci si può dare di rilettura e sovralettura oppure confrontarsi con gli altri lettori (qui c’è uno spazio all’uopo). Teoricamente, a ogni loro romanzo il confronto autore-lettore è impari (dal 2008, in quattro contro uno), ma il ribaltamento è facile se a un collettivo di scrittori può “far fronte” una comunità di lettori.

Il grande pregio di questo romanzo è che, nonostante la notevole complessità, non perde il suo essere popolare, nel senso di fruibilità del testo: qualcosa arriva comunque al lettore. La letteratura da sola non può cambiare il mondo, ma se questa storia riuscisse soltanto a svegliare qualche sonnambulo della Rete sarebbe già un grande risultato. Riuscite a immagine una persona che si crede un moderno sanculotto e che – svanita la mesmerizzazione – si ritrova davanti allo specchio con fez, camicia nera e manganello?

La notte del gatto nero

gatto_nero_pagliaroLa notte del gatto nero potrebbe essere riassunto così: Jean-Patrick Manchette scrive Leonardo Sciascia. Ci sono la Sicilia — isola nell’isola — il genere letterario come pretesto e il tema giudiziario, elementi tipici dello scrittore di Racalmuto e l’esattezza cristallina che è la cifra stilistica dell’autore francese. 

Antonio Pagliaro racconta la storia della famiglia di Giovanni Ribaudo: un onesto borghese — “piccolo piccolo” — insegnante in una scuola paritaria e una moglie religiosissima, due archetipi antropologici meridionali che vengono risucchiati nel vortice delle vicende giudiziarie del figlio, altra figura paradigmatica, ma questa volta non riferita al solo meridione ma al Paese intero; la voglia del ragazzo di scoprire il mondo come antidoto all’inerzia rimanda a una globalizzazione che nel 2003, anno in cui è ambientato il romanzo, era già l’aria che respirava la nuova generazione e il vento che sferzava la vecchia.

Uno stile così essenziale, dove tutto è azione e niente è superfluo, ha come conseguenza non solo una piacevole fluidità di lettura, ma anche la capacità di mettere a fuoco le psicologie dei personaggi e fissare, con facilità e senza intrusioni di qualsiasi tipo da parte dell’autore, i nodi tematici. Per esempio, è chiaro il nocciolo della questione mafia: esiste e prolifera dove manca lo Stato. La mafia appare come uno Stato non laico che non ha bisogno di chiese, municipi o sportelli al pubblico: arriva direttamente al cittadino attraverso l’etere del bisogno.

La realtà di questo romanzo è vivida e opprimente, senza via d’uscita che non siano la morte e/o la metafisica religiosa: due soluzioni che mal si abbinano a problemi di più immanente quotidianità. 

[Recensione pubblicata su Thriller Magazine]

Intervista su con.tempo

A fine maggio uscirà su con.tempo Un battito di ciglia, un racconto sul tema del numero zero della rivista: l’attimo prima del confine. Nel fra.tempo, sono stato intervistato da Daniele Corsi, che ringrazio assieme a Carlo Benedetti e a tutte le ragazze/i della redazione per lo spazio e l’opportunità.

A clockwork orange carnival

Hai tredici anni. Non sei più un bambino ma neanche un ragazzo. Là fuori, piccolo muso pallido, il mondo è assai cattivo e selvaggio. Questo non c’è bisogno di impararlo, scorre nelle vene assieme al sangue di tuo padre di generazione in generazione. Fra qualche anno, non ti dovrai disturbare a insegnarlo ai tuoi figli, il gene del fatti-i-cazzi-tuoi-che-campi-cent’anni farà il suo lavoro. C’è chi le mazzate le prende e chi le distribuisce. Una variante della famosa legge, valida per la giungla in cui sei nato.
Per te, che le hai sempre prese, il carnevale quest’anno sarà come un richiamo della foresta. Non potrai in alcun modo resistergli.

* * *

Si chiamano Zinzulari. Si mascherano con degli stracci e girano per le strade in bande. Menano – a mani nude e con bastoni – per il gusto di darle. Non solo perché a carnevale ogni scherzo vale. Non dimenticare che sei nato in una terra selvaggia, ragazzo. In burlate così, in giochi che sono palestra di sopraffazione, rischi di incorrerci ogni giorno che dio manda in terra.
I Zinzulari fanno paura.
Si attaccano al tuo citofono e, se non li apri, lo devastano.
È successo l’anno scorso, quando tua madre costrinse in il tuo pa’ a non aprirli.
Driiiin!
Eccoli, puntuali.
«Fai come vuoi. Io non voglio neanche vederli. Vado in camera.» dice lei.
Ti ritrovi solo col tuo vecchio, mentre il citofono – drin, driiiin, drin-driiiiiin – si abbatte sulle vostre orecchie come un vento fastidioso che fa strizzare gli occhi. Lui, dall’alto della sua statura, ti guarda e senza aprire bocca dice: «Non ti preoccupare. Ci sono io. Non può succedere niente di male.»
Poi preme il pulsante.

Questi fantasmi vestiti di stracci urlano, ridono, battono i bastoni sulla ringhiera. Sei spaventato a morte. Ma anche curioso di vederli.
Appena entrano, si zittiscono come radio senza corrente. Uno dopo l’altro abbassano le maschere. Ora puoi contare sei sorrisi storti e dodici palpebre appesantite dal vino: «Non ci offrite niente?»
Tuo padre li porta in cucina e li fa accomodare. Tira fuori vino, bicchieri e frutta secca. Torna l’elettricità. Volano schiamazzi che non riesci a seguire, come quando eri bambino: discorsi da grandi, mezze parole, allusioni e battute che non riesci a capire. L’attenzione è tutta sui loro volti giovani – il più vecchio avrà al massimo venticinque anni – e lo sforzo è tutto nel cercare di riconoscerli. Non ci riuscirai, è troppo presto ancora. Fra un paio d’anni, quando comincerai a frequentare bar e saloon del tuo villaggio te li ricorderai bene. Lì è la loro casa, tra birre, sigarette e sogni di conquista.
Passa neanche mezz’ora che hanno bevuto abbastanza.
Barcollano fino alle scale, dove i loro bastoni ritornano a pizzicare la ringhiera come uno xilofono stonato.
Prima di chiudere il cancello, trovano il tempo di rovesciare e spaccare un vaso di gerani appena fioriti.

* * *

Il giorno dopo è ancora carnevale e il richiamo della foresta è più forte che mai.
Hai passato tutta la mattinata al telefono a cercare di convincere i tuoi amici a uscire: «Vestiamo pure noi da Zinzulari, dai.»
«Tu sei pazzo.»
Poi, al calare del sole, litighi coi tuoi genitori.
Vuoi uscire, a tutti costi.
Non sei più un bambino.
Quando i lampioni si accendono, sei fuori coi tuoi stracci, un manico di scopa e la paura che soffia con il vento sulle guance imberbi. Attorno a te, palazzine popolari i cui toni di grigio si fondono con la notte incipiente. Strade parallele e tutte uguali. Buio in movimento.
Cominci a vagare.
La vista si abitua al crepuscolo artificiale. Assieme ad essa, esplodono pure gli altri sensi. Da qualche parte, un cane randagio si è appena avventato su una busta di spazzatura in cerca di un pasto. Il frusciare della plastica è distinto e fastidioso come un’unghia su una lavagna. I profumi della vegetazione in fiore – oleandri, soprattutto – sanno di un dolciastro che rivolta lo stomaco.
Le prime avvisaglie di primavera sono una trappola cui i tuoi stracci non possono porre rimedio. Hai freddo. Ma presto smetti di tremare.
Arriva la prima, barcollante banda di Zinzulari.
Li attendi in mezzo al marciapiede, speranzoso.
«Guaglio’, posso venire con voi?»
La risposta è una serie di dolorose spallate e pestoni.
La frustrazione è una brutta bestia; mischiata con la paura poi è ancora più pungente. Va sfogata. Lo specchietto di una macchina può bastare. L’adrenalina è un farmaco infallibile.
Arriva la seconda banda. Sono in sei. Forse gli stessi di ieri, a casa. Forse no.
«Guaglio’, mi pigliate?»
Pigliare ti pigliano, questa volta. Ma a mazzate.
Tutte dritte nello stesso posto: gli stinchi.
Le lacrime che si formano agli angoli degli occhi, non sono di dolore, no.

* * *

Davanti al citofono di casa, il bastone brucia nelle mani.
Il cervello proietta un film di colpi a ripetizione, tasti avulsi come occhi dalle orbite e fili elettrici esposti come budella di un cadavere.
Il bastone si alza – i muscoli in tensione – per poi abbattersi sull’angolo di un muro e spezzarsi in due.
Piangi pure, piccolo muso pallido, ti farà bene.

* Illustrazione di Edo Grandinetti
** Special thanks to Ray

Cento byte di solitudine, omaggio a Gabriel Garcia Marquez

Gabriel Garcia Marquez

Gabriel Garcia Marquez

Nel giorno in cui si apprende della morte di Gabriel Garcia Marquez, vorrei ricordarlo con un racconto, Cento byte di solitudine. Un testo che ha dieci anni. Lo scrissi nel 2004 per partecipare a un concorso sulle web addiction. Facebook era stato fondato proprio in quell’anno e i social media non avevano lo stesso ruolo di oggi; il concetto di comunità web era decisamente sfumato. Il racconto ebbe una sola pubblicazione, tradotto in inglese, per un numero speciale della rivista Next, nel 2009. Lo ripropongo qui, spinto dalla stessa, immutata ammirazione che provavo per Marquez due lustri fa.

* * *

Pochi minuti alla fine di Macondo City. Aureliano è immobile davanti al monitor. Dalla fronte una goccia di sudore scende nell’occhio, ma non lo distrae dalla sua tristezza.
Dalì – lo screensaver – s’arriccia i baffi invadendo il desktop. Aureliano sfiora il mouse facendo emergere una babele di file e cartelle. Tra questi un collegamento di cui non riesce o non vuole leggere il nome: è una connessione ad un server internet mai utilizzata, ancora vergine di click. Sfiora l’icona col puntatore, le mani sul mouse sono gelide.
Dissolvenza: il suo cervello si riposa oscurandogli per qualche secondo la vista.
Ritorna a vedere, i pixel emergono dall’ombra scintillando. Si parte. Connessione standard. Ultime notizie da Macondo City, una città virtuale, una soltanto tra le esistenti e le infinite possibili:

[02:48] Prosegue l’esodo da Macondo City: disconnessi 3.532.003 utenti su 6.000.000 complessivi.

Un sorriso spastico solca il volto di Aureliano. Ha freddo. Dovrebbe alzarsi per bere qualcosa di caldo o indossare un maglione.
Ancora no.
Un altro giro, un altro ancora e poi basta.
Dissolvenza.
Click!

[02:52] Macondo City: 5.789.000 utenti disconnessi su 6.000.000.
[02:53] Memento Mori: solo 1000 utenti connessi su Macondo City.

La risata di Aureliano, mista ad attacchi violenti di tosse, è tanto forte che lo fa diventare paonazzo.
Dissolvenza.
Monitor.
Tastiera.
Dissolvenza.

Una capatina per vedere come sta Remedios, la sua amica virtuale più fedele e sincera. Aureliano lancia il programma Messenger / Live Chat.
[Remedios] Qua va tutto a puttane. Tutti si stanno disconnettendo e…
[Aureliano] Perché?
[Remedios] Ecco appunto: nessuno sa il perché.
[Aureliano] …
[Remedios] Ti saluto amico. Io stacco. Alla prossima.
Click!

[03.01] Un utente connesso a Macondo City.

Dissolvenza.
Ritorno al desktop.

L’icona della connessione remota mai utilizzata è sempre là. Aureliano esita. Vuole cliccarci sopra ma sente la mano paralizzata. Adesso legge cosa c’è scritto sotto: realtà.
Il dito finalmente si muove sul mouse.
Aureliano chiude gli occhi.
Click!

Macondo City è finita, sprofondata per sempre nell’oceano della Rete. Prima di scomparire emette un urlo di morte in linguaggio binario. Un ultimo rantolo pesante 100 byte.
Ora non esiste più.
Le Città condannate a Cento Byte di Solitudine non hanno una seconda possibilità nella Rete.
Dissolvenza.

Mario e il mago, Thomas Mann e l’Italia di oggi

Thomas Mann

Thomas Mann

Mario e il mago è un racconto di Thomas Mann pubblicato nel 1930, che prende spunto dalle suggestioni che un soggiorno estivo sulla costa tirrenica italiana regalarono allo scrittore tedesco. Non un bellissima esperienza, in definitiva. L’Italia era sommersa dall’ondata di propaganda fascista che lo stesso Mann spiegò alla figlia minore come «una malattia, per così dire; non molto fastidiosa ma necessaria»; erano proprio i primi anni: dopo fu evidente a tutto il mondo che la malattia non fu né poco fastidiosa né necessaria.

Protagonista del racconto è il Cavalier Cipolla, più che mago illusionista un vero e proprio ipnotizzatore, che tiene uno spettacolo nel villaggio dove soggiorna lo scrittore e la sua famiglia. Per il contesto storico e le maniere del Cipolla – l’eloquenza, la sgradevolezza e la feroce autorità esercitata con un frustino – è quasi inevitabile accostare il mago al Duce.

«Parla benissimo» si constatò vicino a noi. L’uomo non si era ancora prodotto, ma soltanto le sue parole erano apprezzate come un lavoro; era stato capace di imporsi solo con questo. […] Perché il modo come uno parla viene tenuto come misura di apprezzamento personale: negligenza, disordine, destano disprezzo, eleganza e abilità, umana considerazione; anche l’uomo della strada, quindi, non appena la cosa gli conviene pre il suo effetto, si prova in scelte locuzioni e le connette accuratamente.
Almeno sotto tale riguardo, Cipolla aveva destato un’impressione favorevole, sebbene non appartenesse in nessun modo a quella specie umana che l’italiano, con una singolare confusione di giudizio morale ed estetico, chiama “simpatica”.

Pare che quella di Mann non fosse un’allegoria politica diretta del fascismo (il nazismo ancora doveva nascere), ma piuttosto che volesse dare alla novella un senso più etico, rivolto al ragionamento sul libero arbitrio in generale e alla tragedia che consegue la sua privazione. Un concetto molto chiaro in questa scena, dove il Cavalier Cipolla estrae di tasca due mazzi di carte; da uno ne seleziona tre e le tiene da parte, invitando poi qualcuno del pubblico a fare altrettanto per dimostrare che le carte combaceranno alla perfezione.

Un giovane in prima fila, alla nostra destra, con un viso dal profilo incisivo, un italiano, fattosi avanti dichiarò di essere deciso a scegliere le carte secondo la propria volontà, opponendosi di proposito ad ogni influenza. Che cosa avrebbe fatto Cipolla?
«Con ciò» rispose il Cavaliere «lei renderà il mio compito un poco più difficile; ma la sua resistenza non influirà sul risultato finale. La libertà esiste, ed esiste anche la volontà; ma la libertà di volere non esiste, perché una volontà intesa alla propria libertà urta nel vuoto.  Lei è libero di estrarre o di non estrarre la carta: ma se lo farà, estrarrà quella giusta, con tanta maggiore certezza, quanto più grande sarà l’ostinazione con cui si oppone.»

Il sentimento dello scrittore verso l’Italia è ambiguo, delle volte ammirato, altre velato di una patina di infastidita indignazione. Questo ha a che fare con percezione generale che i popoli del nord hanno di noi, certo, ma anche con alcuni atteggiamenti e abitudini che – da ogni punto di vista, latitudine e longitudine – appaiono beceri e bigotti. In Mario e il mago ci sono due esempi lampanti: quando Mann e la sua famiglia sono costretti a lasciare l’albergo perché non graditi da personalità di rilievo (motivo: la tosse di uno dei figli è un fastidio e un generatore di ipocondria) e quando la sua bambina, nuda, desta scandalo sulla spiaggia e il fatto viene denunciato alle autorità.

Si può sicuramente affermare che, come una certa bigotta sciatteria non ha abbandonato il popolo italiano, altri Cavalier Cipolla sono seguiti negli anni al primo, giù fino a giorni nostri. Ancora non ci è chiara la differenza tra illusione e ipnosi: in ogni caso, è sempre spettacolo. Il bisogno di narrazione spettacolare, l’identificazione catartica nell’attore che a turno recita il ruolo di Cipolla, è diventato il solo paradigma della politica italiana. La discussione, lo scontro e la mediazione mandano a gambe all’aria l’intrattenimento.

Così adesso, mentre l’ultimo Cavaliere è in fase di entropia accelerata, di Cipolla ce ne ritroviamo ben due: entrambi decisionisti, risoluti e melliflui parolieri. C’è chi agita di più il frustino e chi meno, ma è evidente in entrambi – così come nel precedente – la capacità di calcare il palcoscenico. Il pubblico applaude soddisfatto, desideroso di intrattenimento com’è, incapace di distinguere la velocità dall’azione e la cieca ubbidienza dalla coerenza.

Lui che prima aveva tanto voluto e comandato, rappresentava ora l’elemento che, nella rinuncia alla propria volontà, passivamente riceveva ed eseguiva quanto gli era imposto da un muto volere collettivo diffuso per l’aria; ma il Cavaliere insisteva nel dire che era la stessa cosa. La capacità, diceva, di rinunziare a se stesso, di trasformarsi in strumento, di attenersi a una incondizionata e perfetta ubbidienza, è solo il rovescio dell’altra di volere e comandare, è la stessa, identica capacità: comandare e ubbidire rappresentano insieme un solo principio, una indissolubile unità; chi sa ubbidire sa pure comandare, e inversamente; un pensiero è compreso nell’altro.

L’ossessione di inseguire quel «muto volere collettivo diffuso nell’aria» spiega bene l’inquietante aderenza tra il Cipolla originale e quelli di nuova generazione. Un volere che, per l’ennesima volta, è composto da un misto di speranza e rabbia. A ciascuno il suo, cari Cavalier Cipolla, non pestatevi troppo i piedi.

* Le citazioni sono tratte dalla raccolta Cane e padrone, Mondadori, 1955. Traduzione di Giorgio Zampa.

La Torre Nera

La Torre Nera di Stephen King: sette romanzi (cui se n’é aggiunto un ottavo nel 2012 da collocare tra il IV e il V volume), trent’anni tra la pubblicazione del primo e dell’ultimo volume, un adattamento a fumetti di Peter David e Jae Lee per la Marvel e un film o una serie TV – o tutte e due – su cui sta lavorando Ron Howard e un’infinità di rimandi ad altre opere dello stesso autore, di altri scrittori, a film e musica. Su Drowned Word, ho preso appunti fino al quarto romanzo. In questo articolo partirò proprio da una sintesi di quanto già scritto.

* * *

L’ultimo cavaliere è una puntata un po’ incerta, scritta da un ancor giovane King, ma getta basi solide per il prosieguo della narrazione. Con La chiamata dei tre invece è già palese la caratura dell’opera: un vero e proprio atto d’amore verso i “generi” di letteratura (un tempo) popolare: western, fantascienza, horror, noir e, perché no, anche rosa. Parafrasando Ballard, per The Dark Tower si potrebbe parlare di Inner frontier, la frontiera interna: ovvero, dove finisce il sogno epico, romantico e mitico che da Omero discende fino all’alba del ‘900 scorso e iniziano i canti di paranoia e alienazione dell’uomo moderno. C’è tutto l’incanto e il sense of wonder dei racconti orali e del fantastico più tradizionale, mischiato all’introspezione da romanzo psicologico e al pastiche postmoderno. Ben oltre la frontiera intesa come scenografia del mito: una vera e propria frontiera letteraria.

* * *

The Waste Lands è il terzo capitolo della serie della Torre Nera. Qui Stephen King comincia a fare veramente sul serio. Il titolo e l’epigrafe rimandano direttamente ad un’altra Terra desolata, quella di T. S. Eliot:

Un cumulo di immagini infrante, dove picchia il sole
E l’albero morto non dà riparo, il grillo non dà tregua,
E la pietra arida ha suono d’acqua. Solo
C’è l’ombra sotto questa questa roccia rossa,
(Vieni nell’ombra di questa roccia rossa),
E ti mostrerò qualcosa di diverso dalla
Tua ombra che di mattino ti viene dietro
O dall’ombra che la sera ti si leva contro;
Ti mostrerò la paura in una manciata di polvere.

Alfiere del modernismo, Eliot scende nelle sue lande desolate all’inizio degli anni ‘20, gli anni in cui dalla morte di un’avanguardia ne nasceva un’altra, quel lasso di tempo in cui gli artisti – come funamboli della storia – dalla catastrofe della Grande Guerra gettavano l’occhio in avanti, fino all’apocalisse temporanea segnata dalla seconda guerra mondiale. L’opera (giunta al termine della formazione del poeta/drammaturgo e che segna a fuoco la sua prima, pessimista produzione) fu accolta dalla critica con pareti contrastanti; l’addebito più frequente fu quello di essere un lavoro troppo complesso, cervellotico, freddo, distante anni luce dall’immediatezza emotiva che dovrebbe contraddistinguere la poesia.

Stronzate.

Eliot riesce nella magnifica illusione di comprimere parte cospicua della letteratura che l’ha preceduto in poco più di quattrocento versi, mischiando toni, registri e stili, mettendoli in relazione facendoli collidere e schiacciare contro se stessi, fino a sintetizzarli in una visione temporale della sua epoca che ancora ha molto da dire anche nell’era dell’ipertesto. A tal proposito, Julia Kristeva scrive:

Per i testi poetici moderni questa è una legge fondamentale;  essi si costruiscono assorbendo e distruggendo nel medesimo tempo gli altri testi dello spazio intertestuale: sono per così dire alter-giunzioni discorsive.

Alessandro Serpieri (professore di Letteratura Inglese all’Università di Firenze nonché traduttore e curatore dell’edizione BUR), precisa:

Semplificando, si potrebbe concludere che quello che più interessa a Eliot (come, d’altronde, a Pound, a Joyce, ecc.) è mettere in rapporto: soggetto e oggetto, presente e passato, realtà e mito, testo e testo.

Insomma, quello che ha fatto T. S. Eliot con la poesia, secondo la mia modestissima opinione, Stephen King – appresa (consapevolmente o inconsapevolmente è secondario) la lezione dei modernisti e dei postmodernisti – lo fa con la letteratura di genere: solo che invece di comprimere le alter-giunzioni, le fa letteralmente (o letterariamente) esplodere. La Torre Nera, come è noto, è un’opera-fiume o, se preferite, un grande mosaico in cui tutti i generi popolari trovano una loro collocazione.

Una scoperta dell’acqua calda che ustiona, se solo vi si immerge la mano.

Quanto alle “aderenze” tra il poema di Eliot e il romanzo di King, ce ne sono a bizzeffe. L’allineamento delle quest Sacro Graal/Torre Nera (viste come la ricerca di una fertilità perduta) è la più banale e non basterebbe da sola a far capire quanto le due opere siano intimamente legate. Sul serio, c’è tanto di quel materiale da poterci scrivere un saggio; tra uomini incappucciati (There is always another one walking beside you / Glinding wrapt in a brown mantle, hooded), donne con lunghi capelli neri che aspettano di cantare la loro canzone (A woman drew her long black hair out tight / And fiddled whisper music on those strings) e torri che crollano…

Parafrasando Serpieri si potrebbe dire che quello che più interessa a King (come, d’altronde, a Eliot, a Pynchon, a Gibson, a Lansdale ecc.) è mettere in rapporto: soggetto e oggetto, presente e passato, realtà e mito, testo e testo, fotogramma e fotogramma, ogni futuro possibile.

* * *

Il colore del quarto romanzo, La sfera del buio, è il rosa: rosa come il genere pop predominante – qui vi si racconta la storia d’amore tra Roland, il protagonista, e Susan Delgado – e rosa come la sfera citata nel titolo e che è il centro narrativo della vicenda. Non è proprio il colore che ci si aspetterebbe sulla tavolozza di questo autore ma, tant’è, a lui che pare riuscire tutto, riesce pure un harmony a ritmo d’apocalisse. Maledetto King. Il viaggio attraverso la psicologia del protagonista accelera bruscamente verso il profondo così, inaspettatamente, mentre preghi perché l’autore ti risparmi altre scene di amori fugaci in verdi praterie. Fare carta da cesso della riluttanza di un lettore senza perderlo è un passo oltre la semplice sospensione dell’incredulità.

La sfera del buio è anche un romanzo sulla crisi della famiglia moderna: scopriamo che Roland – questo freddo pistolero dagli occhi di ghiaccio – è anche un ragazzo attraversato da sentimenti contraddittori verso i propri genitori; tutto questo mentre il mondo che lo circonda sta andando avanti, spezza i collegamenti con una rassicurante tradizione e cade in una forte distorsione, proprio come i legamenti sfilacciati di un’articolazione in un trauma. Gli ultimi quarant’anni di questa parte di mondo si sovrappongono spaventosamente col tempo diffuso e pazzoide del mondo della Torre Nera. Altro che storie per facili sospiri.

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Al di là delle avventure di Roland e compagni (questa volta dovranno proteggere un villaggio, Calla Bryn Sturgis – non a caso John Sturges è il nome del regista dei Magnifici sette) il vero protagonista del volume V, I lupi del Calla, è il folken, la popolazione. E il fatto che sia dipinto sul modello della gente del Maine, e quindi della provincia americana, non impedisce di allargare la similitudine ai cittadini di un intero stato.

Il folken del Calla è tutto preso dal proprio lavoro – sono contadini e allevatori – e anche se non vi sia una vero e proprio sindaco o capo (dinh, direbbe Roland di Gilead) non mancano certo le personalità, quelle cioè che possono esercitare un certa pressione e/o controllo o che comunque possano fare la “voce grossa”: ovvero autorità religiose ed economiche. Il folken vive in pace la sua esistenza sopravvivendo con i frutti del proprio lavoro, è indipendente. Una quasi perfetta forma di socialismo rurale: le decisioni vengono prese in assemblee valide solo se ad esse sono presenti un numero di individui ritenuti sufficienti, ognuno si fida dell’altro. Una piccola utopia in un mondo distopico: yin e yang narrativo.

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Anno dopo anno, riga dopo riga, libro dopo libro, Stephen King si è creato all’interno della serie della Torre Nera un spazio ri-creativo perfetto: tutto torna e si incastra e, anche se non torna a prima vista, il ka (il destino) o gli universi paralleli fanno il resto. The Dark Tower è il “gigaromanzo” contenitore di tutto l’immaginario del Re. E se contiene le storie, i temi, brandelli embrionali o ecografie personaggi di altri romanzi, che c’è di male se contiene anche l’autore stesso? Nel VI volume, La canzone di Susannah, una parte degli eroi del Medio-Mondo incontra King di persona.

Sarebbe lecito aspettarsi grosse elucubrazioni cerebrali alla Paul Auster: personaggi in una fibrillazione a metà tra lo sconcerto da lettino dell’analista e una crisi mistica, e un deus ex machina vittima di una depressione da post-partum letterario. Il gioco è più facile per Mr King, che la fama negli anni ha già reso un personaggio. E il risultato non intoppa la narrazione. Da parte dell’autore c’è un profondo rispetto per le proprie creature e nessuna enfasi metafisica. Ma, inutile negarlo, questa parte rappresenta bene la poetica dello scrittore del Maine: raccontare, sopra ogni altra cosa, una storia. Il resto viene di conseguenza. L’analisi è mestiere del critico. Vivere il romanzo è un atto di complicità tra chi racconta e chi legge, una magia del raziocinio officiata da un prodotto dell’intelletto e del cuore: i protagonisti della storia.

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Il volume VII segna la conclusione della storia. Non c’è molto da dire, nonostante sia il più corposo. La corsa contro il tempo – leitmotiv kinghiano – questa volta riguarda personalmente e direttamente il lettore. Dopo l’incredibile numero di parole e avventure si ha una fretta spasmodica di arrivare alla meta. King, da consumato artigiano, pigia il piede sull’acceleratore.

Man mano che ci si avvicina alla meta, alla Torre Nera che regge ogni universo possibile («ci sono altri mondi oltre a questo»), si avverte la necessità di tornare indietro, di mettere occhi, orecchi e cuore in quegli avvenimenti appena accennati della vita dei protagonisti. Ed è un vittorioso e felice paradosso per l’autore, coadiuvato dal fatto che questa sete non potrà essere placata né da una serie a fumetti nata proprio con questo scopo, né da un volume che si aggiunge alla serie (La leggenda del vento), perché il vuoto vuole essere colmato dallo stesso narratore. Un grande risultato per un romanzone che tutto è tranne un capolavoro assoluto. Non deve essere facile scrivere del(o per)lo stesso personaggio per anni e anni, tra interruzioni, altre opere richieste e date in pasto ai lettori e un incidente quasi mortale. È come cercare di finire un cruciverba in mezzo a una folla di bambini che ti tira per la giacca (mentre uno, dispettoso, ti tira perfino un pugno nelle palle).

La Torre Nera è un gorgo narrativo, una sabbia mobile dove il lettore ha il piacere di morire, così, solo per vedere che c’è in fondo alla palude.

Un buco allo stomaco

La celebre figurina Panini in cui Baggio si chiama Monelli: un altro esempio di mondo parallelo con protagonista il Divin Codino

La celebre figurina Panini in cui Baggio si chiama Monelli: un altro esempio di mondo parallelo con protagonista il Divin Codino

Una piccola panetteria di San Frediano diventò una porta su un universo parallelo: un mondo dove Dio riempiva lo stomaco e non l’anima, Roberto Baggio non aveva mai lasciato la Fiorentina per la Juventus e un buddista convinto mangiava una bistecca al sangue.

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Pane toscano, pugliese, coi semi di sesamo e senza, ciabatte, pizze, pizzette, schiacciate all’olio e ripiene di crema, crostate, sacher monoporzione, cornetti. Un’orgia di invitanti profumi e fragranti bontà di giornata.
Valeria serviva un cliente dopo l’altro, sempre più imbarazzata, mentre il suo stomaco brontolava come un vecchio trombone.
Quasi un complotto: dopo più di un’ora in cui non s’era vista anima viva, arrivarono tutti d’un colpo. Precisi, giusto al primo sintomo di fame.
Era sola. Suo marito era costretto a letto da una febbre talmente alta da farlo viaggiare nel tempo: «Gobbo no, eh! Accidenti a te Roby, se tu parti noi si fa la rivoluzione.»
Per lui era il maggio del 1990, l’anno dei mondiali e nel delirio cercava di convincere Baggio a non lasciare la Fiorentina.
Accidenti a te, Jacopo, al calcio e alla tua febbre.
Sorridendo – non tollerava la gente che non sorrideva mai – una gocciolina salata le scivolò sulle labbra. I calciatori sudavano come lei, sorridevano meno di lei e guadagnavano quanto lei avrebbe sperato in dieci vite.

Visti i tempi non era il caso di lamentarsene, ma i clienti sembravano accatastarsi uno sull’altro. Ogni tanto, con la scusa di andare a controllare un forno nel retrobottega, Valeria dava un morso a una schiacciata all’olio.
La piena cessò, di colpo com’era arrivata.
La schiena le doleva e prese posto su uno sgabello. Guardò soddisfatta il recipiente in vetro dei fagioli cotti al forno: era quasi vuoto. Era un’idea di  Jacopo: ogni tanto alla gente del quartiere avrebbe fatto piacere mangiare come dalla nonna. Aveva ragione. E poi su qualche spicciolo in più non ci si sputava sopra.
A proposito di suo marito: le medicine avevano fatto effetto o stava ancora tentando di convincere Baggio a cambiare idea? Dette un morso distratto alla schiacciata, portandosela dietro il bancone. Provò a perdersi nei suoi pensieri ma non ci riuscì.
La piena era ricominciata.
Uno dopo l’altro entrarono un uomo con sua moglie (o una donna con suo marito), un bambino, poi una bambina, un tipo con gli occhiali da sole, un altro che aveva tutto l’aspetto di un muratore e infine un prete. Tempo di alzare gli occhi da un particolare indefinito su una pagnotta e se li ritrovò tutti davanti, come materializzati da un sogno.

La vergogna le bloccò il boccone in gola. Quasi poté specchiarsi nelle espressioni dipinte sui volti dei nuovi arrivati: si vedeva rossa come una lampadina surriscaldata, gli occhi strabuzzati e una ruga profonda come un canyon in mezzo alla fronte.
Le rare volte in cui non sapeva chi servire per primo lasciava fare a loro. E così fece, non prima di aver ingoiato il boccone e di essersi scusata.
Il primo a farsi avanti fu il prete: «Vorrei un po’ di fagioli, per piacere.»
Nel frattempo il muratore aveva preso una lattina di birra dal frigo e si era avvicinato alla cassa, sventolando un biglietto da cinque euro.
L’uomo con gli occhiali da sole, uno a cui la stazza non mancava, batté una mano sul bancone: «Ma la fila? La bambina qui ha un buco allo stomaco.»
Uomo e donna (o donna e uomo) con marmocchio si guardarono in faccia e dissero all’unisono: «What the fuck!»
Bene, avrebbe deciso lei: prima gli yankee, che non abbiano a dire a casa loro che siamo dei cafoni, poi il muratore – lo conosceva, Alin, birretta e trancio di pizza marinara: l’avrebbe servito in un lampo – tra il prete e l’Occhialuto avrebbe fatto decidere a loro.
Un, due, tre, via!
«Scusi, padre. Permette? Faccio in un attimo e sono da lei» disse Valeria.
Il prete forzò il suo volto a un’espressione di accondiscendenza e annuì.
«Can we have some skicciadah
«Sure. For whole family, sir?»
«Yeah, right!»
Mentre pesava e incartava, disse al capobranco che se voleva qualcosa da bere poteva prederò dal frigo dietro di lui. Negativo. Quattro e cinquanta. E tanti saluti alla Casa Bianca. Trenta secondi al massimo. Avanti il prossimo.
Al muratore non disse nulla se non, dopo aver impacchettato il Solito e dato il resto: «Grazie Alin, a domani.»
Venti secondi netti.
Era il momento del duello.
Il prete guardò i fagioli, l’Occhialuto ghignò. La bambina era incollata al vetro del bancone.
I due sfidanti si fissavano negli occhi.
La tensione fu spezzata dallo stomaco di Valeria, mai domo, che eruttò un gorgoglio a tutto volume.
«Scusate» disse, e arrossì di nuovo.

Il prete volle dimostrare la sua superiorità morale e cedette il posto: «Faccia pure», disse e si fece da parte.
Valeria, per metà soddisfatta dalla pace ritrovata e per metà delusa dalla guerra mancata, dispose il suo sorriso d’ordinanza verso l’Occhialuto.
L’enorme bistecca d’uomo né ringraziò l’ultras di Cristo né ricambio il sorriso: «Chieda alla figliola. Sa quello che vuole.»
Mentre la bambina spiegava a Valeria quali schiacciatine voleva e perché ne voleva due, «così domani mattina ho già la merenda per la scuola», l’Occhialuto fissava il prete assorto sui fagioli.
«Basta così?» disse la panettiera.
Il ghigno dell’Occhialuto quasi brillò più della luce del giorno: «No, guardi, vorrei un po’ di quei fagioli al forno.»
Il prete accusò il colpo, deglutendo a vuoto. Il suo avversario gli aveva sparato alle spalle.
Valeria, in forte imbarazzo, chiese: «Per quante persone?».
Ci fu una pausa, quella terribile sospensione del tempo che prelude a una figura di merda.
«Una», rispose l’uomo, secco.
Una vampa di vergogna bruciò Valeria dai piedi fino alla punta delle orecchie.
I due fagioli rimasti non erano abbastanza per il prete, che girò i tacchi e chiosò: «Dio riempie tutti i vuoti, anche quelli allo stomaco. Arrivederci.»
Valeria finì la sua skicciadah e crollò su uno sgabello. Era immobile come una statua, ma il suo cervello ronzava a tutto gas: che figura! E se l’Occhialuto fosse divorziato, magari da poco, e questo fosse il giorno in cui sta con la figlia o, peggio, se la moglie fosse morta? Non potevo semplicemente mettere i fagioli nel sacchetto di plastica e chiedere: «basta così?». No! Troppo semplice. E invece cosa gli chiedo? Per quante persone. Come se ci fossero fagioli a sufficienza. Poveretta la moglie. E il prete con lo stomaco vuoto? Accidenti a me! Se ci fosse stato Jacopo, tutto questo non sarebbe accaduto.

Se ci fosse stato Jacopo, magari sì, non sarebbe andata proprio in quella maniera. Le avrebbe spiegato che l’Occhialuto non era il padre della bimba ma il nonno, un comunista di ferro che sognava l’Armata Rossa in piazza della Signoria. Le avrebbe raccontato di Don Aldo che si lamentava sempre della cucina della perpetua e che una volta a settimana le faceva dispetto tornando con qualcosa di già pronto. Niente defunti, nessuna separazione, nessun morto di fame. In definitiva, nessuna figuraccia.

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Un altro mondo, un altro terribile universo: Jacopo non avrebbe avuto la febbre e non avrebbe mai mangiato quella bistecca con Roby a I’ Brindellone. La bistecca epocale e definitiva, quella che tra un morso e l’altro l’aiutò a convincere Baggio.
«Te ne vai, allora. E metti che ti ritrovi a battere un rigore contro – i rigori a quelli non mancano mai – che fai? Lo tiri come se niente fosse?»
Roby viola a vita.
Valeria lo svegliò mentre il Divin Codino mostrava il pallone d’oro alla Fiesole.

Lezioni americane

Italo Calvino

Italo Calvino

Il 15 ottobre del 2013 Italo Calvino avrebbe compiuto novant’anni. Per celebrare la ricorrenza, Linkiesta ha affidato a cinque intellettuali/scrittori contemporanei una riflessione per ogni valore che Calvino ha suggerito di portare nel nuovo millennio nelle celeberrime Lezioni americane, ovvero leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità.

Senza volere entrare nel dibattito su cosa ci siamo portati effettivamente dietro dopo gli Anni Zero – sparando nel mucchio si potrebbe dire: «tutte tranne l’esattezza», ma non è così facile, le Lezioni sono un testo molto denso – riporto uno stralcio dell’opera citata che mi ha impressionato:

Ho cominciato questa conferenza (quella sulla «Rapidità», NdR) raccontando una storia, lasciatemi finire con un’altra storia. È una storia cinese.
Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno di un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni  il disegno non era ancora cominciato. «Ho bisogno di altri cinque anni» disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò.  Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.

Ora, se diamo per scontato che in dieci anni Chuang-Tzu non abbia solo oziato ma abbia in qualche modo coltivato la sua abilità, si può spostare la riflessione su un piano che fa della letteratura una sorta di atto allo stesso tempo magico e razionale e dello scrittore un individuo a metà tra lo sciamano e l’artigiano. O almeno così mi piace immaginarlo. La rapidità del gesto sottintenderebbe una preparazione, o comunque una capacità di concentrazione, che risulta evidente nell’efficacia.

O forse che il buon Chuang-Tzu abbia solo aspettato il momento buono?
A questo punto diventerebbe una questione di fede – nella Sacra Musa o nel Talento Divino – abbastanza per mandare l’artigiano a farsi benedire e lasciare il dono della parola al Dio di turno (Denaro, Caso, Apollo/Dioniso, Jahveh, scegliete voi il vostro preferito) che designa l’eletto e ne fa uno scrittore. E questa è una prospettiva decisamente meno attraente. Una lettura che è un delirio metafisico.