There’s a slow train coming
It’s movin’ on down the line
Steel wheels on iron rails
Tonight I’m fixin’ to die
Joe Bonamassa, Slow Train
An acoustic evening at Vienna Opera House
Dietro le palpebre uno schermo nero. Di sottofondo, un ritmo regolare di pistoni, vapore e ruote d’acciaio. Il fischio che seguì fu la nota blu che la risvegliò dai suoi sogni. Emma Bovary aprì gli occhi.
Un treno stava arrivando, lento, sulle rotaie della stazione Leopolda.
La primavera del 1859 era appena esplosa. Il sole dei lucernari intercettava il pulviscolo sollevato dalla gente scesa dalle carrozze. La signora Bovary, le palpebre ancora socchiuse, restò immobile sulla panchina. Aveva lo sguardo sfocato da lacrime dense. Si raccoglievano sulle ciglia, un ricordo alla volta, e scivolavano via.
Papà Rouault e la vita in campagna, Charles, il matrimonio, la casa a Tostes. L’insostenibile noia coniugale. Il ballo al castello La Vaubyessard e la vita che divenne obliqua, una vertiginosa discesa di sogni d’amore, degni di un romanzo: il Marchese di Andervilliers, Lèo e, infine, Rodolphe.
Per Rodolphe aveva detto addio alla Francia e al suo matrimonio con Charles. Fuggirono passando da Marsiglia e Genova, dove trascorsero le notti migliori della loro vita.
All’alba di uno di quei giorni dove ogni gesto era sensualità e tenerezza, Rodolphe la sorprese sveglia alla finestra a fissar le lanterne del porto svanire nella luce della mattina.
«Non riesci a dormire?»
Emma esitò il tempo di una carezza. Poi disse: «È il pensiero che tutto questo possa finire. La paura che la noia, prima o poi, ci separi, come già ha fatto con me e Charles.»
«Ci avevo già pensato. È per questo che domani stesso salperemo verso Livorno.»
Nel Granducato di Toscana ci arrivò da sola.
Rodolphe aveva abbandonato la nave poco prima della partenza. Come commiato solo poche parole vergate di fretta su carta da pacchi: «So che mi capirai. Alla noia non c’è rimedio.»
Ci aveva già pensato, appunto.
* * *
Gli anni a Livorno furono bui. Conobbe la fame, gli stenti, la sporcizia che si attacca alle ossa come ruggine. Maledisse la sete d’avventura. Ma ormai non poteva più tornare indietro. Si abbassò a ogni mestiere, fino al meretricio. Ogni cliente era un sudicio colpo di spugna ai sui sogni d’amore. Ma uno, almeno, fu diverso.
Lorenzo.
Lui non gettava pietre sul suo cuore, lo gonfiava di speranza. Era giovane come Léo, carismatico come il Marchese di Andervilliers, e riuscì a farle dimenticare Rodolphe e tutti gli altri uomini della sua vita, compresi Charles e perfino papà Rouault.
Dopo l’amore, le raccontava di Firenze: soprattutto di Palazzo Pitti, dove lavorava come messo alla corte di Leopoldo II. Lorenzo le disse che il sovrano aveva il labbro sporgente e che tutti lo chiavano Broncio.
«E non è finita», diceva «in molti lo appellano come Canapone.»
«Perché?» chiedeva Emma, soffocando le risa.
«Per via dei suoi capelli biondi, sbiaditi come la canapa.»
Lorenzo era speciale per questo. La faceva ridere. La divertiva.
Giorno dopo giorno, ricominciò a sognare. Finché non gli chiese di portarla con lui a Firenze. A corte non lo avrebbe fatto sfigurare, conosceva le buone maniere, sapeva sostenere una conversazione, suonare il piano e, come vedeva lui stesso, parlava bene la lingua italiana, che aveva studiato con passione.
Venne il giorno in cui si diedero appuntamento alla stazione Leopolda.
Durante il viaggio in treno era colma di una felicità incontenibile. Pareva che Broncio avesse fatto stendere tutti quei chilometri di strada ferrata solo per lei.
* * *
Il treno, lento ma alimentato dal vapore delle sue speranze, l’aveva portata a Firenze tre giorni fa. Madame Bovary non dormiva da due notti, rosa dalla disperazione e dai cattivi ricordi.
Lorenzo non era diverso dagli altri. L’aveva illusa, usata e abbandonata.
Non poteva fare altrimenti, Lorenzo, uno dei tanti, umili giardinieri di Boboli.
Il convoglio intanto si preparava a riprendere la via di Livorno. Una piccola folla si raccoglieva tra le alte mura della Leopolda. Gente che parlava, parlava e parlava. Discuteva di Canapone e dei Piemontesi, dell’Italia che sarebbe venuta. Si affannava coi bagagli e i pacchi.
Il treno fischiò la sua impazienza a partire.
Una ragazza dai capelli neri e la pelle di porcellana correva verso la carrozza. Il cappello le volò dalla testa e andò a cadere ai piedi della signora Bovary. La ragazza si chinò a raccoglierlo e le sorrise. Aveva una cicatrice sulla guancia. Fu come vedere Berthe, sua figlia, solo con qualche anno in più.
Solo in quel momento, Emma trovò la forza di alzarsi dalla panchina. Per la rabbia o per l’improvviso vuoto degli anni perduti che le agitò l’anima.
* * *
Madame Bovary attraversò le strade di una Firenze in pieno tumulto. Le persone affollavano le strade. Correva voce che Broncio avesse abdicato e stesse per lasciare la città e il Granducato. C’era chi rimpiangeva il sovrano e chi la ghigliottina: «Maremma cane, con quella sì rimetti a posto le cose: qualche testa nel cesto e qualche grullo in meno.»
«Stai sicuro che così non tornano.»
L’eccitazione era alle stelle.
Quando arrivò davanti Palazzo Pitti, pareva che ormai nessuno fosse rimasto in casa. La carrozza di Leopoldo II si fece largo tra la folla, lentamente. Qualcuno gridò: «Addio, babbo Canapone!».
Poi il tempo parve accelerare vorticosamente, come a volersi proiettare nel futuro.
La carrozza del sovrano aumentò la velocità e Madame Bovary si ritrovò, senza sapere come avesse fatto in mezzo a tutta quella umanità urlante, sotto gli zoccoli dei regali cavalli.
Per una volta almeno, era riuscita a realizzare i suoi sogni.
As the steam from my slow train rises
It’s time for me to get on board